Tutto il personale sanitario impegnato quotidianamente nella cura dei pazienti affetti da Coronavirus è esposto a situazioni ed eventi che possono favorire lo sviluppo di disturbi psicologici. Lavorano senza sosta al limite delle loro forza, sia fisica che mentale.

Oltre ai turni di lavoro infiniti, alla scarsità di risorse protettive, al carico emotivo derivante dal trovarsi immersi in una crisi sanitaria mondiale, infermieri e medici sono messi a dura prova anche da altre condizioni accessorie. Ad esempio, possono trovarsi a lavorare in reparti che non gli appartengono, in ambiti per cui non hanno una formazione specifica. Iconico è l’esempio di Filippo Randelli, Primario di Ortopedia e Traumatologia al Policlinico di San Donato Milanese che è tornato tra le file degli specializzandi in pneumologia per acquisire le competenze necessarie per poter essere d’aiuto. O ancora, sono neo abilitati o specializzandi, che possono ragionevolmente sentirsi smarriti  ed inadeguati di fronte ad una realtà così dura e cruda. Non che non abbiano messo in conto la morte e l’emergenza nel loro lavoro, ma trovarsi catapultati in una realtà fatta di morte e di emergenza è un’altra cosa.

Depressione, ansia, insonnia, come confermato anche da un recente studio scientifico sul personale medico e infermieristico cinese (Huang e co. 2020) sono solo alcuni dei disturbi che potrebbero insorgere. Il personale medico femminile, secondo questo studio, ha riportato livelli di ansia significativamente maggiore rispetto ai colleghi uomini. Inoltre, il personale infermieristico ha riportato sintomi ansiosi in misura statisticamente maggiore rispetto al personale medico; questo dato può essere spiegato dal fatto che il personale infermieristico lavora maggiormente a stretto contatto col paziente, sia in termini di vicinanza fisica che in termini di frequenza.

La testimonianza di un’infermiera

Seguo privatamente online un’infermiera lombarda che ha recentemente sviluppato pensieri intrusivi legati agli occhi dei pazienti. Si rende conto che questi pensieri stanno invadendo la sua quotidianità.

Medici e infermieri stanno vivendo in poco tempo, e in dosi incredibilmente elevate, ciò che normalmente li espone al rischio di sviluppare gli effetti tossici di un eccessivo carico emotivo, ma con una significativa differenza: ciò che prima era diluito in mesi o addirittura anni, oggi è concentrato in giorni e settimane.

La relazione infermiere – paziente, da fattore di cura a potenziale fattore di rischio

Il personale infermieristico merita uno sguardo più approfondito. Sono proprio loro che giornalmente vivono a contatto con i pazienti, con i loro vissuti e la loro sofferenza. Un rapporto talmente stretto da rischiare di portarli a fare proprio il dolore del paziente, arrivando, nei casi più severi, addirittura a somatizzarlo.

È dunque un lavoro, quello dell’infermiere, che porta sicuramente una profonda gratificazione e felicità quando la cura ha effetto, ma che si contorna anche di momenti difficili, cupi, tristi quando il decorso della malattia non ha gli esiti sperati. Vivono come un pugno nello stomaco i sensi di colpa legati all’impotenza della situazione, al non poter far altro che stringere una mano, o regalare un sorriso. Con gli occhi naturalmente, perchè è l’unica parte del volto visibile. Sono quelli che normalmente entrano in stanza chiamando il paziente per nome, quasi a farlo sentire un amico, una persona cara e non un mero paziente. Questo semplice atto ha il potere di connettere, di creare un legame. Proprio quel legame che, ora più che mai. manca a chi entra in un ospedale. Certo, è fondamentale riuscire a mantenere le distanze, a non essere coinvolti emotivamente, un po’ per non influenzare il proprio giudizio clinico, un po’ per proteggersi dal dolore della separazione e della perdita, ma non è facile poiché la relazione fa parte del processo di cura.

Oggi, inoltre, rappresentano una delle pochissime “relazioni”, uno dei pochissimi “legami” che il malato affetto da Coronavirus ha una volta varcata la soglia dell’ospedale. Non pensare a questo aspetto risulta impossibile ed è per questo che questa categoria è maggiormente esposta a sviluppare sintomi post traumatici quando la situazione si sarà normalizzata

Impossibile dimenticare gli occhi di chi è stato assistito, gli sguardi, la solitudine in cui migliaia di persone sono morte, senza che loro potessero fare nulla.

La salute psicologica è messa a dura prova

Insomma, si delinea un quadro di rischi psicologici che si vanno ad aggiungere allo stress a cui da sempre è sottoposto il personale sanitario. Eccessivo carico di lavoro, le aggressioni verbali e fisiche da parte di pazienti e familiari, la consapevolezza di non poter fare errori e, non ultimo, i carichi emotivi.

Diversi studi hanno dimostrato come i professionisti sanitari siano restii a chiedere un aiuto psicologico (Dutheil 2019) nonostante vivano una profonda sofferenza. In questo contesto, consiglio a tutti di ascoltarsi. Ognuno di noi ha la propria “asticella”, lo stesso stimolo non ha effetto uguale su ogni individuo, quindi è bene imparare ad ascoltarsi e, nel caso si ravvisino forti segnali di disagio, rivolgersi ad uno psicologo per intervenire precocemente ed evitare la cronicizzazione di pensieri disturbanti e/o intrusivi, sintomi fisici e comportamentali disadattativi o, nei casi più gravi, patologici.

Come se non bastasse l’impegno etico, morale e deontologico a cui medici e infermieri giurano di far fede una volta abilitati alla professione, che impone loro di mettere la propria vita e le proprie competenze al servizio delle persone, della vita e della salute (si pensi al Giuramento di Ippocrate per i medici e a quello di Florence Nightingale per gli infermieri, oltre naturalmente ai rispettivi Codici Deontologici), l’attuale narrazione bellica della crisi, che vede il personale sanitario “al fronte”, “in guerra”, “in prima linea nella battaglia” non fa che aumentare la pressione, l’ansia e lo stress legati prestazioni da cui dipende la vita o la morte delle persone. Io stessa mi sono ritrovata a parlarne in questi termini, immersa in uno storytelling globale. Una narrazione di questo tipo, però, rischia di addossare loro una responsabilità ancora maggiore, se possibile, rispetto all’ordinario.

Convivere con la paura, le aspettative e l’impotenza

La paura di contagiarsi ed infettare i propri cari.

L’auto isolamento, fatto di timori e solitudine.

La paura di morire, come tanti, troppi colleghi negli ultimi mesi.

Sì, perché chi sceglie di diventare medico o infermiere non lo fa con l’intento di sacrificare la propria vita, bensì con l’intento di salvare le vite altrui. Il legittimo istinto di autoconservazione, in questa situazione, è messo a dura prova. 

Il fatto di essere visti e acclamati come degli eroi è sicuramente, almeno in un primo momento, appagante, euforizzante e gratificante. Diciamolo, inorgoglisce e dà la carica. Le persone però tendono ad idealizzare il personale sanitario come “coloro che ci possono salvare”. Sono stati investiti, dunque, di una responsabilità eccezionale. 

Che succede se le persone continuano a morire? Succede che medici e infermieri che si sono presi cura di loro non rappresentano più i “salvatori”, ma coloro che non sono riusciti a salvarli. Ed ecco che si passa dall’idealizzazione, alla rovinosa caduta dell’oggetto idealizzato.

In tutta onestà, non mi stupirei che al termine di questa emergenza, molti di quelli che fino a ieri erano i nostri eroi, diventino oggetto di cause legali. Già, perché l’uomo tende a dimenticare in fretta e sul lungo periodo, mantenere alte le aspettative di un’intera popolazione non sarà facile. 

Perché il nemico è invisibile, sconosciuto e non abbiamo ancora una cura efficace.

Perché, purtroppo, tante persone ancora moriranno.

Perché, purtroppo, molti non possono essere curati.

Curare e prendersi cura

Se da un lato non è sempre possibile curare un paziente, inteso come il ripristino dello stato di salute presente prima dell’insorgere della malattia, è certamente possibile prendersi cura di lui, attraverso l’attenzione, l’ascolto, la premura, il sostegno emotivo, il lenire le sofferenze.

È importante avere in mente questa differenza. Soprattutto in una situazione simile, in cui gravano sulle spalle di infermieri e medici, le aspettative di tutta la popolazione, è bene avere tutti in mente che, in alcuni casi, sfortunatamente, prendersi cura del paziente è l’unica cura possibile. Una realtà dura da accettare, ma pur sempre una realtà.

Infermiere e medico, non sono solo lavori

Non è facile, per il personale medico ed infermieristico, neanche in una situazione ordinaria, scindere se stessi dal proprio ruolo. 

Mentre io, in qualità di psicologa, riesco ad essere una professionista durante una seduta e Cristina a cena fuori, un medico ed un infermiere restano tali anche fuori dal contesto ospedaliero, sempre all’erta e pronti ad intervenire nel caso in cui qualcuno non si sentisse bene.

In un’ottica narrativa, dire “Mi chiamo Cristina e sono una psicologa” è molto diverso rispetto a dire “Sono Cristina e faccio la Psicologa”.

Per questo, soprattutto in questo momento, è importante riuscire a ritagliarsi un piccolo spazio personale da cui tenere fuori il più possibile l’ospedale, il virus, i colleghi e i pazienti, nonostante il pochissimo tempo a disposizione.
Un punto di partenza potrebbe essere quello di ricercare in memoria le strategie che hai usato in altri periodi della vita particolarmente stressanti e rimetterle in pratica. In un certo senso, sei la persona che meglio conosce se stessa quindi puoi trovare il modo di aiutarti. Possono essere d’aiuto anche piccole azioni quotidiane dal grande potere terapeutico: prendersi cura della propria persona, nutrirsi correttamente e con calma, parlare con una persona cara. Mente e corpo viaggiano sullo stesso binario, allentare lo stress mentale è di grande aiuto anche a livello fisico, permettendo di rigenerare le forze per tornare ad agire. Tuttavia, come suggerisce anche la World Health Organization (WHO), è importante tenere conto della salute psicologica tanto quanto quella fisica. “Non è uno sprint, ma una maratona”.

Se senti che il carico psicologico ed emotivo, oltre che fisico, è troppo elevato da portare, se senti che i pensieri sfuggono e sono difficili da organizzare, se senti di essere al limite non esitare a chiedere un supporto da parte di un professionista. Con l’aiuto di uno psicologo è possibile ritagliarsi uno spazio di cura di sé in cui, ad esempio, riorganizzazione i pensieri, dare un senso a ciò che stai vivendo, dare voce delle emozioni, troppo spesso soffocate e inascoltate. Ma anche imparare alcune tecniche di rilassamento che, svolte anche solo per pochi minuti al giorno, possono dare un significativo aiuto in un’ottica di riduzione dello stress.

Non è un caso che siano proprio le professioni socio sanitarie, in genere, quelle più a rischio Burnout e/o a sintomi legati allo stress lavoro-correlato.

Perché è improprio parlare di Burnout in questa fase

In questo preciso caso e in questo preciso momento, credo che sia inopportuno parlare di Burnout. Tutto il personale sanitario sta lavorando con passione, abnegazione, sacrificio e coinvolgimento emotivo.

Il Burnout invece prevede, tra gli altri criteri specifici, il crollo psicofisico e il distacco emotivo. Ebbene, in questo momento non vi è né il crollo psicofisico né il distacco emotivo. Anzi, a costituire un “problema” è semmai il troppo coinvolgimento, il sovraccarico emotivo, un “fare” continuo ed incessante sulla spinta adrenalinica, come traspare dalla testimonianza della mia paziente o dalle parole di Federica, infermiera in RIA all’Ospedale di Pinerolo che ho intervistato la scorsa settimana.

Il tempo del fare, il tempo del pensare

Nella prima fase dell’emergenza c’è stato solo il tempo per “fare”. Il susseguirsi incessante di pazienti negli ospedali e i turni di lavoro infiniti richiedevano solo di agire tempestivamente. L’adrenalina, gli attestati di stima, l’investitura salvifica che la popolazione ha dato loro, gli applausi hanno fatto il resto. Il tempo di “pensare” non era contemplato.

Anche adesso che la situazione si sta lentamente normalizzando, almeno all’interno dei Pronto Soccorso e nelle Terapie Intensive, è molto difficile che si rendano conto di ciò che stanno realmente vivendo, della portata traumatica di questa esperienza. Non c’è ancora tempo per fermarsi a pensare. Succede ancora tutto molto in fretta. C’è ancora una spinta importante orientata all’efficienza. All’essere efficiente. All’essere rapido, attento e pronto ad agire. 

Tuttavia, anche se in questo momento sembrano essere trascurabili poiché “c’è da fare”, è di fondamentale importanza riuscire a creare degli spazi di “pensabilità” in cui analizzare ed elaborare ciò che si sta vivendo, individuare o favorire lo sviluppo di risorse individuali utili, Ricercare le cause individuali di questa sofferenza non solo in un’ottica di benessere psicologico, ma anche di efficacia lavorativa.

L’importanza di chiedere aiuto

Molti infermieri e medici potranno ritrovarsi in tutto ciò che ho scritto, o in parte. Qualcuno sta già vivendo alcune delle situazioni psicologiche ed emotive di cui ho parlato, qualcuno potrebbe accorgersene più avanti, qualcuno mai in virtù dell’asticella a cui ho fatto accenno precedentemente. 

Qualunque sia la fase in cui ci si trova, il momento di intervenire è ora.

È evidente che la situazione in questo momento sia difficile, il tempo sia poco e non si percepisca come fondamentale ricevere un sostegno psicologico ed emotivo professionale perchè, come ho detto prima “non c’è tempo, ora c’è da fare” (questo ahimè è anche dovuto al fatto che esiste in Italia una scarsa cultura psicologica). Ma, chi ha avuto la forza di chiedere aiuto, ha avuto la dimostrazione di quanto sia importante ritagliarsi, proprio in questa fase, uno spazio di decompressione, di ascolto e consulenza, accompagnato e guidato da un professionista, al fine di tutelare la propria salute psicologica, diminuire lo stress ed allentare il carico emotivo.

Prendersi cura di sè per prendersi cura degli altri.

“Una delle qualità essenziali del clinico è l’interesse per l’umanità, poiché il segreto della cura al paziente è prendersi cura del paziente.”  

Francis W. Peabody 1927

Fonti e approfondimenti

Suicide among physicians and health-care workers: A systematic review and meta-analysis, Frédéric Dutheil , Claire Aubert , Bruno Pereira, Michael Dambrun, Fares Moustafa, Martial Mermillod, Julien S. Baker, Marion Trousselard, François-Xavier Lesage, Valentin Navel, 2019

Impatto della Pandemia COVID-19 sulla salute mentale degli operatori sanitari  di A. Gentile, M.I. Mustillo, Angelo Malinconico

People’s Hospital of Fuyang City, Dipartimento di Gestione delle Infezioni, 2020, Huang e co.

Mental health and psychosocial considerations during the COVID-19 outbreak 18 March 2020, WHO   https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/mental-health-considerations.pdf

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