In un clima quasi surreale, dove le notizie si susseguono velocemente e talvolta in modo contraddittorio, ho voluto un contatto diretto con la realtà, o meglio, con una realtà, immersa nell’emergenza Coronavirus. Ho scelto di rivolgere qualche domanda a Federica Nicola, infermiera del reparto di rianimazione (RIA) dell’Ospedale Civile Edoardo Agnelli di Pinerolo.
Conosco Federica da quasi 17 anni e, fin dal primo incontro, è stata per me un porto sicuro, fonte di protezione e sicurezza.
È la “direttrice” che quando si fanno le foto di famiglia dispone tutti nel miglior modo possibile, in tempi record, a ritmo di “dai dai dai forzaaa dai”.
È il “sergente” che in ogni occasione trasmette sicurezza.
È la zia che ha affrontato un dramma familiare che avrebbe affondato chiunque, con forza, dignità e speranza.
È lo sguardo rassicurante che tutti cercano, senza rendersene conto.
Intervista a Federica, infermiera in prima linea
Ciao Fede, prima di cominciare vorrei ringraziarti per aver trovato un po’ di tempo per rispondere alle mie domande, non era scontato in questo momento. Pronta? Si parte!
Per molti anni hai lavorato come infermiera in terapia intensiva (RIA), da qualche tempo hai cambiato reparto. Ora, in virtù della tua esperienza sei stata ricollocata in RIA. Che reparto hai lasciato e come lo ritrovi ora?
Bella domanda! A parte i primi due giorni di confusione per capire come era stato riorganizzato il mio vecchio reparto per far fronte all’emergenza, devo dire che è stato un bel ritorno. È come se non fossi mai andata via da lì, come se non avessi fatto altro nella vita, anche perchè 18 anni in RIA sono una vita!
I primi giorni non ho potuto non notare un grande affanno e concitazione in tutto il gruppo, al fine adattarsi velocemente ad un’organizzazione in continuo divenire (posti letto da creare e allestire, procedure da assimilare e rispettare scupolosamente, ricoveri, trasferimenti di pazienti); insomma una confusione dettata anche dalla sensazione e dalla paura latente che lo “tsunami” fosse ormai alle porte. Nonostante tutto ho visto un gruppo coeso ed impegnato a raggiungere un solo grande obiettivo: farsi trovare “pronto” per affrontare una sciagura di tale portata.
Il gruppo che ho lasciato 3 anni fa ha subìto un turnover importante, ma i colleghi infermieri e medici storici, beh, loro sono sempre loro, colonne portanti, “fratelli di professione”. Sono gli stessi che quasi 6 anni fa mi sono stati accanto, mi hanno teso la mano per non mollare e mi hanno aiutata a risollevarmi da un dramma infinito che tu conosci molto bene.
Ecco, li ho ritrovati come allora.
Hai paura?
Se dicessi no, forse non sarei credibile, vero? Ma in realtà è così, non ho particolarmente paura per me stessa. Il contagio è uno dei possibili rischi del mio lavoro e l’ho messo in conto tanti anni fa quando ho scelto di fare l’infermiera. Non solo per il Coronavirus, il rischio è sempre dietro l’angolo ed è per questo che siamo formati ed addestrati ad usare al meglio tutte le protezioni e le precauzioni possibili.
Nei giorni in cui attendevo la mia collocazione, invece, ho avuto un po’ di ansia, erano giorni caotici e si respirava tensione ovunque; quando mi hanno assegnata in RIA, beh mi sono rasserenata perchè sapevo esattamente cosa fare.
È l’incertezza, in questo momento, a rendere tutto più difficile: quante risorse avremo a disposizione, quanti pazienti varcheranno la soglia dell’ospedale? Non lo sappiamo.
Inoltre c’è l’apprensione per la salute dei tuoi cari, i genitori, i figli e soprattutto per Paolo (suo marito, ndr), perché ha un’attività commerciale di beni alimentari, quindi lavora a stretto contatto col pubblico e anche lui, come me, rappresenta una categoria a rischio.
Com’è cambiata la tua quotidianità?
La quotidianità, intesa come lavoro, casa, famiglia, impegni, figli, scuola, compiti, semplicemente non esiste più. È un paradosso perché non esiste più, ma esiste. Continui ad avere i figli, un marito, i genitori e ognuno di loro ha questioni che sei chiamata a gestire, ma chi è sul campo ora non ha più testa per tutte queste cose, anche se fino a ieri erano le più importanti della sua vita.
Ed ecco allora arrivare come un fiume in piena un profondo senso di inadeguatezza, i sensi di colpa, lo sconforto, lo stress. Tutto diventa difficile, perchè quando esci dall’ospedale per tornare a casa sai di lasciare i tuoi colleghi in una situazione terribile e vorresti solo tornare indietro ad aiutarli.
Quando sei in reparto vorresti tornare a casa ad abbracciare i tuoi affetti e quando sei a casa vorresti essere in ospedale ad aiutare i tuoi colleghi e i pazienti.
Ora, per forza di cose, non sono a casa per evitare ogni contatto, quindi, oltre a tutto questo, aggiungici che ti mancano da morire gli abbracci dei tuoi figli, sentirli ridere e litigare. Altro aspetto della quotidianità che manca tantissimo è il contatto fisico che è limitato da distanze e barriere e questa è una cosa che mi manca come l’aria che respiro. Infatti ridendo con i miei figli, gli ripeto tutti i giorni che quando tutto sarà finito dovranno sopportare le mie coccole asfissianti.
Un casino, la quotidianità è diventata un casino!
Diventa difficile far riposare la mente quindi?
È praticamente impossibile, non riesco a staccare. Il turno finisce, ma la mente è sempre lì.
Molti dicono “siamo in guerra contro un nemico invisibile”. Ti senti in guerra?
Inizialmente no, non mi sentivo in guerra. Per me la guerra aveva un’immagine e un sentimento ben preciso, qui non ci sono bombe che ti cadono in testa o mine che ti fanno saltare in aria; eppure più passa il tempo, più mi rendo conto che il paragone non è così sbagliato.
Siamo in guerra principalmente perché scarseggiano le risorse per gestire al meglio questa epidemia, un po’ come quando vieni ferito in battaglia e ti arrangi con quel che hai.
Siamo in guerra perchè si ammalano e muoiono colleghi.
Siamo in guerra perché abbiamo perso la libertà di movimento.
Siamo in guerra perchè uscire di casa è rischioso.
Siamo in guerra perchè le persone muoiono da sole, perchè non esistono più i funerali che sono riti fondamentali, sia per onorare i nostri morti che per aiutare i vivi ad elaborare il lutto.
Siamo in guerra perchè quando l’ambulanza ti porta via non sai se farai ritorno.
Ecco, forse una guerra diversa da quella che siamo soliti immaginare, ma guerra.
C’è un aspetto particolare di quest’emergenza che ti colpisce più di altri?
Potrei parlarne per ore, ce ne sono tantissimi sia inerenti al mio lavoro che alla famiglia e alla società.
La cosa che mi colpisce di più è la solitudine. Le persone sono sole: nelle case, negli ospedali, ai forni crematori, in famiglia: siamo soli.
Tante persone raccoglieranno i cocci di se stessi e questo mi fa star male. Penso ai morti e ai loro familiari, è un dolore che non si può descrivere, penso al devasto emozionale nelle zone dell’epicentro, vedi Bergamo.
Poi penso ai bambini e mi chiedo: come ci stiamo occupando di loro? Nessuno di noi, me compresa, ha mai vissuto una pandemia, una reclusione forzata, un bombardamento mediatico a cui sono sottoposti quotidianamente, spesso senza troppi filtri. Penso ai bambini che hanno entrambi i genitori malati ed isolati a causa di questo virus e mi faccio tante domande. Senza volerlo cresceranno con immagini, vissuti ed emozioni che nessun adulto potrà capire, perchè nessuno di noi è stato bambino in una situazione simile e forse non abbiamo gli strumenti giusti. Come spieghi ad un bambino o a un ragazzo che la mamma o il papà non possono avvicinarsi a lui, non possono abbracciarlo e baciarlo come hanno sempre fatto, che non può uscire di casa, che non può vedere i nonni, gli amici, che non deve andare a scuola.
È una situazione a cui non eravamo preparati nè in termini strumentali, nè in termini di risorse, nè in termini psicologici.
La cronaca ci racconta che, prima di questa situazione i medici, e soprattutto gli infermieri, sono stati spesso oggetto di denunce e di aggressioni verbali e fisiche. Oggi il mondo intero vi considera degli eroi. Che effetto fa?
In una parola? Rabbia.
Non siamo eroi, non siamo paramedici, siamo infermieri. Per diventare infermieri è necessario conseguire la Laurea triennale di I livello in scienze infermieristiche e per esercitare è necessaria l’iscrizione al relativo Ordine professionale (OPI). Dopodiché si può proseguire con la Laurea Magistrale in infermieristica, un percorso biennale. Poi si può proseguire con Master universitari di I e II Livello di tipo clinico, gestionale o di formazione e ricerca fino al Dottorato di Ricerca, un percorso di formazione universitaria triennale dopo la laurea quinquennale.
L’infermiere è quindi il professionista sanitario che opera nell’ambito della prevenzione (informando, educando e sostenendo il cittadino, la famiglia e la comunità verso corretti stili di vita e il rispetto dell’ambiente di vita), della cura (con interventi relativi alla diagnosi, cura e riabilitazione), dell’assistenza (individuando e gestendo i bisogni di assistenza della persona e della famiglia) e della riabilitazione (promuovendo e sostenendo il recupero e il mantenimento della maggiore autonomia possibile, in particolare nelle malattie croniche, ed educando il singolo e le sue persone di riferimento all’autocura e ad adeguati stili di vita).
Ci tengo a specificare il nostro iter accademico, perché nonostante un percorso formativo che può raggiungere gli 8 anni (e più, se pensiamo ai corsi di aggiornamento e formazioni varie) nell’immaginario comune i medici sono qui e sotto sotto sotto gli infermieri, la bassa manovalanza, quelli che “cambiano il pannolone ai pazienti”.
Le persone non sanno chi sono e che lavoro fanno gli infermieri e il Governo finge di non saperlo, questa è la cosa più grave. All’estero siamo pagati 3,4 volte tanto e siamo ricercatissimi perché siamo tra i più preparati d’Europa.
Allora non chiamateci eroi, ma riconosceteci per i professionisti che siamo. Gli infermieri sono una colonna portante del nostro Sistema Sanitario Nazionale, insieme ai medici, oss, tecnici di laboratorio, radiologi e tanti altri professionisti. Nella vita, nel lavoro,nello sport ognuno ha un ruolo preciso, il singolo può poco, il gruppo può molto e per me il buon lavoro d’equipe è tutto.
Questo dramma, forse, sta restituendo a tutti gli infermieri la dignità e la consapevolezza dell’importanza del proprio lavoro, sia in un’ottica di immagine di sè, sia nell’immaginario comune.
Siamo quasi al termine della nostra intervista, se potessi dare un messaggio a reti unificate, cosa diresti?
Credo che le persone oggi non abbiano bisogno di gente che predichi pensieri personali, dall’alto di chissà quale trono. Darei loro le poche e semplici regole necessarie per fare la propria parte in questa guerra. Lavatevi le mani sempre, rispettate le distanze di sicurezza, non toccatevi occhi, naso e bocca con le mani sporche e uscite, solo se necessario, utilizzando la mascherina chirurgica!
Il tutto condito da un’immensa fiducia che occorre avere verso la vita. Il mio motto è: dobbiamo avere fiducia.
Ci lasciamo con l’immagine che porterai sempre con te quando questa emergenza sarà finita.
Occhi in mezzo al caos e sguardi difficili da descrivere, ma che dicevano tutto.
Grazie per quello che tu, i tuoi colleghi, i medici e tutti gli operatori sanitari state facendo per noi.
Grazie anche per aver risposto alle mie domande: come ho detto all’inizio, non era scontato in un momento simile.
Ciao Fede, grazie ancora e speriamo di poterci rivedere presto!